È possibile morire di calcio, morire per un autogol?
Il calcio regala gioie e dolori,ma nessuno prima del 2 Luglio 1994 avrebbe pensato che un gol, anzi un autogol potesse valere la vita di un uomo.
L’antefatto di questa drammatica storia è quattro anni prima ed è il sorprendente mondiale che la Colombia riesce a disputare a Italia ’90, la Seleccion è composta da grandi talenti: Valderrama, Asprilla, Rincon e altri. In porta c’è la leggenda Higuita e baluardo difensivo è Andrés Escobar;
la nazionale sudamericana si ferma agli ottavi, sconfitta dal Camerun, che rappresenta una delle più belle storie nella storia dei Mondiali.
La sconfitta è amara, ma tutti immaginano che al mondiale successivo negli USA la nazionale colombiana sará più matura e potrà andare ancora più lontano.
Così quattro anni dopo i convocati sono quasi gli stessi, non c’è Higuita, in prigione per guai giudiziari (tornerà in Francia nel 1998), per il resto sono praticamente gli stessi e c’è anche il nostro Andrés.
L’esordio non è come ci si aspetta, la Colombia viene schiacciata dal talento della Romania; la Seleccion però è comunque ottimista, gli Stati Uniti sono una nazionale più abbordabile, con una vittoria la qualificazione sarebbe a portata di mano.
E invece accade quel che non ci si aspetta, la Colombia soffre più del previsto e passa in svantaggio: su un cross Escobar è lento e impreciso nell’intervento e segna nella porta sbagliata. Scioccata la nazionale di Asprilla e compagni subisce il 2-0 e a nulla servono la rete nel finale di Valencia e l’ininfluente vittoria sulla Svizzera.
Andrés torna a casa affranto, come i compagni; intervistato dichiara “Un abbraccio forte a tutti, la vita non finisce qui“, ma è affranto e i suoi amici lo notano; una sera nel tentativo di dimenticare il fallimento con la sua fidanzata va in discoteca: l’ambiente è ostile e quando Andrés viene riconosciuto gli insulti si moltiplicano.
Ma Escobar non è arrogante nel suo cuore si vergogna del suo errore sportivo, per questo decide di andarsene senza rispondere ai pesanti insulti, ma fuori dal locale ad aspettarlo c’è un tale Humberto Muñoz Castro, formalmente bracciante, più probabilmente criminale con la passione del tifo fanatico.
“Grazie del gol” e poi una scarica di proiettili verso un uomo, un ragazzo umile ed educato.
Andrés non era Maradona e neppure Valderrama, la grande stella colombiana, era un onesto difensore, capitano della squadra della sua città, il Nacional Medellin; pare avesse impressionato Arrigo Sacchi nella coppa Intercontinentale 1989; chissà che piega avrebbe preso la sua vita se fosse stato acquistato dal grande Milan.
Il suo assassinio ha scioccato il mondo del calcio e non solo; la sua Colombia per ricordarlo decise di togliere il suo numero di maglia, o meglio, il suo 2 doveva rimanere in attesa di chi l’avrebbe indossato gloriasamente.
Non molti anni dopo è arrivato un piccolo grande difensore, unico per la generosità e il cuore, Ivan Ramiro Cordoba, che ha trascinato la Colombia al suo primo e unico grande trofeo: la Copa América 2001,vinta nel ricordo e nel nome di Andrés Escobar.
Federico Nannetti
